Negli ultimi anni è cresciuta una certa consapevolezza dell’importanza dei fattori ambientali nelle transazioni e nei contratti traslativi di proprietà.  
Questo ha portato (o meglio avrebbe dovuto portare), ad attività preventive di due diligence  legale ambientale, per evitare rischi di natura economica e legale connessi a problematiche per esempio di inquinamento.
Per definire queste situazioni di generale non conformità alla normativa ambientale, che possono andare ad incidere sul valore patrimoniale dei beni, si usa l’espressione passività ambientali.

I rimedi giuridici in questi casi vengono direttamente presi dal codice civile, per esempio gli artt. 1490 e 1497, che disciplinano le garanzie legali della vendita di beni immobili e produttivi. 
I rapporti contrattuali possono anche essere soggetti ad inadempimento.
In questo caso risulta opportuno distinguere diverse ipotesi:
1. non conformità di impianti produttivi alla normativa ambientale;
2. non conformità dell’attività trasferita alla normativa ambientale (e.g. mancanza di autorizzazione);
3. necessità di opere di bonifica dei beni trasferiti per presenza di suoli contaminati.

Spesso però, nella prassi contrattuale vengono aggiunte delle clausole atipiche che hanno per oggetto diritti e doveri in materia ambientale.
Si possono incontrare clausole di manleva con cui l’alienante si impegna tenere indenne e manlevare l’acquirente, anche verso pretese ambientale di terzi. Il termine manlevare significa letteralmente sollevare altri dalle conseguenze di un fatto, perlopiù dannoso.
Altre clausole comuni sono quelle con cui l’alienante promette e garantisce la conformità del bene e l’assenza di oneri ambientali: nel caso in cui l’acquirente si trovasse a spendere per regolarizzare in materia ambientale l’attività o l’impianto, l’alienante lo indennizzerà.
Esistono ovviamente anche le clausole che ribaltano la situazione, ovvero quelle che limitano la responsabilità dell’alienante. Ovviamente vi sono dei requisiti per la validità di questo tipo di clausole: il venditore è tenuto sempre per fatto suo proprio; se il venditore ha taciuto in mala fede i vizi il patto è inefficace; ed infine, la garanzia non è dovuta se il compratore conosceva i vizi alla firma del contratto o erano facilmente riconoscibili.

Storicamente, il danno ambientale è stato a lungo ricondotto alla tipologia dell’illecito extracontrattuale. Già la Costituzione aveva dato degli spunti, con l’art. 9 che protegge il paesaggio, o l’art. 32 in cui venivano inquadrate quelle violazioni e compromissione dell’ambiente che hanno un effetto sulla salute dei cittadini.
Poi è giunto il Testo Unico ambientale, il D.lgs 152/2006, il cui art. 300 ha finalmente donato al nostro ordinamento una definizione di danno ambientale, che si distacca un po’ dalla tradizione figura aquiliana, rimanendo però legato ad una responsabilità per colpa.

Per ciò che riguarda alcune categorie di attività, si è cercato prima dell’introduzione del Testo Unico, di applicare forme di responsabilità ex art. 2050 c.c., che si riferisce ad attività pericolose. In particolare il detentore di rifiuti, a differenza di oggigiorno dove la sua responsabilità è legata sempre a parametri di colpevolezza, si vedeva ricondurre la propria attività a quelle ex art. 2050. Questo perché sono suscettibili di applicazione di codesto articolo non solo quelle attività individuate dalla legge, ma c’è una clausola residuale con la quale si identificano le attività che abbiano una natura intrinsecamente pericolosa o si esplichino con mezzi rischiosi.

Sul danno morale determinato da un disastro ambientale, le Sezioni Unite della Cassazione, con la sentenza n. 2515 del 21 febbraio 2002, ne hanno riconosciuto l’autonoma risarcibilità anche in assenza di un accertato danno biologico in senso stretto. Ci sono anche state negli anni delle pronunce di merito che collegavano una lesione in ambito ambientale con un danno esistenziale per le persone sottoposte per esempio all’inquinamento.
Una di queste sentenze è della Corte d’Appello di Milano del 14 febbraio 2003, la quale, per mezzo del richiamo alla necessità di garantire la tutela della normale qualità della vita o della libera estrinsecazione della personalità, ha diviso il risarcimento del turbamento da inquinamento dal turbamento emotivo.

Si è cercato per lungo tempo di provare ad identificare quali casi di violazione di normativa ambientale possano andare a configurare degli atti di concorrenza sleale. 
Il punto è che la normativa ambientale è considerata di natura “pubblicistica” e quindi la giurisprudenza ha avuto non poche difficoltà in questo ambito. La violazione di norme amministrative (che insieme a quelle penali sono la maggior parte di quelle ambientali), di per sé non tutelano la concorrenza leale: a meno che non fosse possibile provare che si tratta di un elemento di una più complessa attività di concorrenza illecita.
Per finire, in tutti i casi in cui il mancato rispetto delle norme in materia ambientale, si concretizzi in una condotta vietata ai concorrenti o comporti un aumento dei risparmi a livello di costi, possono essere identificate come regole concorrenziali.